Due settimana fa ha debuttato un mio monologo a Roma. Di solito non rileggo i miei testi prima di vederli andare in scena. Un po’ per logistica, un po’ per scaramanzia e un altro po’ perché – sì – me la faccio addosso. Che corbellerie avrò scritto? Funzionerà? Dove si trova l’uscita di sicurezza? E il bagno?
Insomma, ero arrivata a Roma la sera prima, tardi, stanca, disorientata dalla metro C e dal clima subpolare. In treno avevo ascoltato un audiolibro di Salgari mentre facevo una medusa all’uncinetto. Quattro ore buie tra gli Appennini umbri, il mar dei Caraibi infestato dai pirati e la mezza maglia alta. C’è di peggio, concordo.
Fatto sta che il sabato sera, dopo una mattinata a decidere con la famiglia cosa mangiare e dove a pranzo, e il pomeriggio a fare la spesa per immaginare cosa mangiare e come la sera, vado a teatro farcita di trippa e cicoriette. E sonno. E fatica (intanto speravo che qualcuno mi chiedesse cosa avevo scritto e perché; noi scrittori tendiamo a far girare il mondo intorno alle nostre parole, quando, è evidente, gira intorno ai panini con la porchetta).
Il teatro fatica a riempirsi, tra le partite e la finale di Sanremo. Ariston batte San Paolo dodici milioni a quarantasette. Qualcuno arriva in ritardo, un po’ di persone si siedono nelle ultime file. Parentesi: se non dovete limonare – e chiaramente non dovete – e avete la fortuna di poter scegliere dove sedervi, mettetevi a centro sala e non dietro. Sentite meglio, vedete meglio e, soprattutto, vi fate sentire. Chi recita è abbagliato dalle luci, ma sente il pubblico, lo sente eccome. Chiusa parentesi.
Tergiverso come tergiversavo quella sera. Non avevo voglia di essere a teatro. Mi è capitato pochissime volte, ma due sabati fa ero proprio stufa. Buio in sala. La musica di Morandi che apre la serata. La presentatrice piena di energia che introduce il primo corto. E si parte.
I monologhi si succedono, finché tocca al mio. Dal fondo della sala arriva una ragazzina in pigiama con le pantofole a forma di Babbo Natale. Perfetta! Un’adolescente in punizione da manuale, la regista ha avuto un’ottima idea. E poi accade. Le parole che avevo immaginato sono carne, prendono vita, accenti, intenzioni, si trasformano in azioni. Man mano che la storia si dipana mi torna in mente ciò che ho scritto, ma non proprio tutto. Anzi, mi stupisco per le trovate che ho avuto, e rido e sento ridere.
Arriva il finale e… ma non è quello che ho scritto io! Oddio, funziona benissimo, anzi, quando torno a casa devo cambiarlo, molto meglio così, però che cavolo… Prendo atto che la scrittura per il teatro si fa a teatro, sentendo le parole dette ad alta voce, agite. Quarantenne alla scrivania battuta da due adolescenti sul palco.
La serata termina, torniamo all’alloggio e dormiamo (ah, ancora nessuno dei miei familiari mi aveva chiesto perché avevo scritto quel monologo e cosa avevo voluto dire, però avevano tessuto a lungo le lodi di un altro). La mattina dopo camminiamo un’oretta per decidere dove fare colazione, mangiamo babà napoletani e cioccolatini svizzeri, baci abbracci e prendo il treno. Prima di ricominciare con l’uncinetto apro la cartella con i miei testi e guardo subito il finale del monologo. Regista e attrice non avevano cambiato una virgola, il testo era proprio quello che avevo scritto io! Non il primo finale, quello che ricordavo, ma il terzo o quarto. Ah.
Torno a Venezia, penso di scrivere qualcosa sul blog e non lo faccio. Aspetto forse che qualcuno mi chieda perché ho scritto quel monologo. Nessuno lo fa, per fortuna. Perché allora avrei dovuto imbastire una risposta sul linguaggio degli adolescenti, la coercizione della vita scolastica, le aspettative femminili sulla vita amorosa, i placcaggi di rugby e i calendari dei pompieri. Meglio di no, meglio di no.
Va be’, ora lo dico, se no passo per genio incompreso che si crogiola nel suo dolore da emarginato sociale. Quella sera a Roma, uscendo dalla sala due ragazze – no, due donne, le mie coetanee non sono più ragazze – mi vedono e mi fermano. Stanno discutendo del mio monologo, ricordando come da adolescenti fossero esattamente così. Ridono, gesticolano, evocano e mi ringraziano. Io sorrido, dico qualche parola di circostanza e proseguo. Per stavolta ce l’ho fatta, svolto a destra e in bagno ci vado solo perché mi scappa la pipì.
Sei grande, spettacolare il tuo pezzo. Spero poterti dare prima o poi il benvenuto in Israele.
Auguri di Salute, Longevità e Prosperità,
Eliahu Gal-Or ±972586272388
MALTA, Media Art Lab Tel Aviv https://mediartlab.com
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Grazie!
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